giovedì 5 novembre 2015

VOLEVO UNA GUERRA – La storia del mio Cortometraggio
(ma anche FUCK YEAH!)

Due anni fa ho deciso di fare un cortometraggio.
È una storia lunga, quindi mettetevi comodi. 

È stato strano, nuovo, eccitante e incasinato insieme. Ho scritto la sceneggiatura e non sapevo bene come fare perché non avevo mai realizzato un cortometraggio. Così ho chiesto aiuto a Lino Palena, che il regista lo fa per davvero - e che ci ha creduto così tanto (o forse l'ho solo fregato bene, ma non diteglielo) che è diventato co-produttore. Poi ho chiesto a Fulvio Vanacore che conosco da tantissimo tempo ed è un genietto della regia teatrale (e non solo) e abbiamo messo insieme i nostri tre cervelli e abbiamo organizzato una due giorni di casting per trovare gli attori. Sono venuti attori da Milano e non solo. Sono venuti e come nei film abbiamo fatto fare loro un provino. Per me era tutto nuovo, ma non è che potevo far vedere quanto la cosa mi esaltasse perché all'improvviso da sceneggiatore mi ero trasformato in produttore. Nel senso di Disney e Bruckheimer insieme. Dovevo fare quello serio e dovevo fare in modo che tutto andasse a buon fine. Non ne sono stato sicuro fino alla fine, giuro.

E insomma abbiamo trovato Miro Landoni, che potrebbe recitare una pagina di "termini e condizioni d'uso" della Apple e renderla indimenticabile. E Nicola Cavallari che è diventato subito il barista di cui avevamo bisogno.
C'erano tanti attori bravissimi a provarci, c'erano nomi grossi e nomi sconosciuti e avremmo voluto prenderli tutti, ma non si poteva. Non si può mai evitare di scegliere, no?

Umberto Ceriani e Marco Balbi (due dei più grandi attori italiani, punto) li ho raggiunti in un modo diverso. Fa ridere, ma ho scritto loro su Facebook. Forse non fa ridere, è così e basta. Ho spiegato quello che volevo fare e sono uscito con loro a bere un caffè. Prima con Umberto, poi con Marco. Ed è stato incredibilmente semplice. Ero intimorito all'idea di incontrare attori così importanti, ma mi è bastato raccontare loro quello che volevo fare, e come volevo farlo, per convincerli. Hanno detto sì, facciamolo, e abbiamo cominciato.

Abbiamo messo su la crew. Non è stato facile. Servivano professionisti che accettassero di crederci (ed essere pagati meno di quello che prendono di solito), che avessero due giorni liberi e un bel po' di fuoco dentro. Lino ha convinto quelli che avevano lavorato al suo primo corto, io ho rotto le scatole a tutti i miei amici perché mi mandassero loro amici, conoscenti, zie, cugini, ex e nipoti. Dopo molti no, forse, mai, alla fine era tutto pronto.



Monica Berardi era il cuoricino pulsante dei nostri piani di regia, Marco Sirignano ha curato la fotografia come fosse stato su un set di Sergio Leone e Riccardo Casiccia ha fatto da assistente operatore, sopportando Marco e Lino (era "supportando"?). Roberto Muratori faceva il capo elettricista e anche la squadra elettricista. Lillà Di Biase accendeva e spegneva il set, e Silvia Ortombina vestiva tutti - correndo, il giorno prima delle riprese, fra le case dei tre attori principali per costruire il loro personaggio al meglio, mandandomi le foto su whatsapp per decidere come sarebbero stati. Io intanto sceneggiavo roba Disney quindi potete capire come stavo a testa in quel periodo. Alice Pozza ha fatto le magie sul set, invecchiando gli attori come solo la Industrial Light & Magic potrebbe e leggendosi Tolkien nelle pause (giuro). È un genio di truccatrice e se non la chiamate per il vostro film siete dei babbani. A un certo punto, fino al giorno prima diciamo, non avevo né i fonici né i microfoni. Panico? Sì, a secchiate. Ma ho chiamato una persona speciale, un amico che quando gli ho detto che cosa volevo fare ha detto che lo avrebbe fatto subito perché voleva esserci al mio primo corto. Parlo di Gianluca Amendolara e del suo team di CELLARDOOR - gente che ha lavorato con Michael Pitt, tanto per dire. E Anthony Ricotta ci ha salvato dandoci tutta l'attrezzatura che serviva. Avevamo due giorni. Due giorni al Frizzi e Lazzi di Milano - per chi lo conosce non c'è molto da raccontare, per chi non lo conosce gli basta sapere che è un bar/locale rimasto identico a se stesso da tempo immemore come un film di Fernando di Leo.
Niente avrebbe funzionato senza i miei migliori amici, però. Che alla fine tutto lì si riduce. Agli amici veri. Alessandro Minoggi, Andrea Simonato e Tommaso Pedullà che facevano parte dello studio Absink, che erano lo studio Absink prima che chiudessimo, mi hanno salvato le chiappe. Correndo qui e là per i permessi, per le candeline del set che si consumavano troppo in fretta, per i pranzi. Hanno fatto tutto quello che bisognava fare e lo hanno fatto solo per amicizia.

Com'è un set?

Madonna santa. È bellissimo. Ho capito perché tutti vogliono fare cinema. Perché sei lì con le cose che ti succedono davanti e ne sei il dio, rimodelli la realtà a tuo piacimento. Crei un mondouniverso e ci giochi. Ecco. È come giocare e puoi farlo quanto e come vuoi, perché le regole a cui devi sottostare sono le tue solamente.

Ho perso dieci anni di vita a ogni casino, a ogni errore o scena che non funzionava. Avevamo solo due giorni e poi tutti sparivano, tornando alle loro vite. La sera il Frizzi e Lazzi lavorava quindi noi arrivavamo alle 7 del mattino, mettevamo su il set e sbaraccavamo alla sera alle 6 per poi ricominciare il giorno dopo. Spostando un dannato frigo dei gelati da dentro a fuori da fuori a dentro per 4 volte al giorno. Lo odiavo quel frigo.

La faccio breve. Abbiamo finito di girare, con Zoe Vincenti che faceva le foto di scena (vere foto di scena da una vera fotografa) e Camilla Ronzullo che registrava la voce per la radio finale (sei un angelo). Abbiamo dato l'ultimo ciak, caricato le nostre cose sulle auto, rimesso a posto il frigo dei gelati e messo le sedie sui tavoli dietro di noi. E quella cosa speciale che per due giorni ci ha fatto giocare, ridere e commuovere si è dissolta. Onestamente, per noi erano solo due giorni, ma io non lo so come fanno quelli che il cinema lo vivono, che stanno sui set per mesi. Come fanno a non star male quando finisce? Ci vuole qualcosa di importante a casa che ti aspetta secondo me, o un progetto nuovo dove buttare tutta quella emozione, se no affoghi.

Chiuso per un cavolo, però. Lino, Marco e io abbiamo lavorato sulla color e sul montaggio, Antonio Petrotta sull'editing audio, amici segreti sulle musiche (che sono pazzesche, fidatevi). Ci sono voluti MESI per arrivare al risultato finito. Una faticaccia, che però alla fine passa via leggera. Guardi quei 10 minuti e dici… dio, l'ho fatto davvero. Non è il cortometraggio più bello del mondo, lo so, non è Kubrick e non è manco Nash Edgerton eh, ma ha cuore e cervello e racconta di tre vecchietti che un po' conoscete tutti quanti. A me come inizio basta.

Si chiama Volevo Una Guerra. I protagonisti sono tre.



Il primo si chiama Ugo Galimberti, detto Ray Charles. Ha 70 anni. Ugo è un impiegato in pensione che sognava di avere la villa col giardino. La sua prima moglie e il suo unico figlio sono morti, e ora la seconda moglie ha chiesto il divorzio. A Ugo non gli si rizza più. Lo chiamano Ray Charles perché secondo Renato Cosimo detto il Ciccio, suo cognato, il problema del suo uccello era che non ci vede più. Se no col cavolo che mancherebbe il buco a quella zoccola di sua moglie.
Il secondo si chiama Franco Golino, ma il suo nome d’arte è Frank il Divo Gondola. Frank Gondola ha 73 anni, è stato al Maurizio Costanzo Show e ha recitato nelle fiction in prima serata su Raiuno. Per campare adesso fa la pubblicità del mascarpone. Sognava di diventare il Marlon Brando della Valtellina.
Il terzo si chiama Thomas Scarpelli, ma l’unico nome con cui lo hanno mai chiamato è Scarpa. Scarpa ha 76 anni e un appartamento vicino a un cavalcavia. Compie borseggi e furti negli ospedali, e si ubriaca con i ragazzini nei locali di Milano. È stato arrestato due volte ma non è mai finito in cella. Una volta ha rubato un camion carico di scarpe da ginnastica, ma ha dovuto regalarle tutte perché non le voleva nessuno.


Questi tre vecchietti hanno un piano e una gran voglia di realizzarlo.


Penso che sia tutto. Cioè. No.

Questa è la fine, manca la premessa e ve la metto in fondo così non potete saltarla. Tutto è cominciato prima. Con il romanzo.

Tre anni fa ho scritto un romanzo, di notte. È una cosa che faccio spesso, anche se lentamente. Il romanzo si chiama Volevo Una Guerra e ci arrivate anche da soli che è lo stesso titolo. I protagonisti sono gli stessi, i tre vecchietti più un altro che si chiama Lino Rossi e non fa una bella fine. 
Quindi il corto è il trailer del libro? No
Quindi il corto è una scena del libro? No.
Quindi il corto è il libro? No.

In realtà se lo leggeste sapreste che la storia è diversa da quella del corto. È una cosa che non ha senso. Sono gli stessi personaggi identici che fanno un’altra cosa. Non ho bene idea del perché, ma penso sia l’unico modo di fare le cose. 




Resta un'ultima cosa da dire. Anzi due. La prima è che il corto è in concorso all’Edimburgh Short Film Festival di quest’anno. Incrociate le dita per me, per Lino, per noi, per i tre vecchietti al bar.

La seconda è grazie. A tutti. A quelli che c'erano, a quelli che mi hanno sopportato (o era "supportato"?), a quelli che mi hanno ascoltato e consigliato giorno e notte. Ad Alessandro Minoggi che è rimasto con me fino alle due, la notte di giovedì, a fare la guardia al set smontato.

Grazie per aver giocato con me.





Ah, dimenticavo. 
Adesso ho intenzione di trasformarlo in un fumetto.



(le foto sono ©Zoe Vincenti e ©Alessandro Minoggi)

venerdì 24 gennaio 2014

THE END

Sto finendo di leggere un sacco di cose in questo periodo. Un sacco di cose stanno finendo, cioè. Come L'Immortale o Blade of the Immortal o come cavolo vuoi chiamarlo. È un fumetto, un manga. I manga finiscono. Questa è una cosa seria. I manga finiscono. Non è come con Dylan Dog con loro e non è nemmeno come con Spider-Man (che io chiamo L'Uomo Ragno perché sono vecchio e i fumetti li leggo da tanto tempo e va bene così). È un po' come con i fumetti francesi, quelli cartonati, grossi e colorati con le copertine belle che durano quattro numeri. O come le mini-serie americane o come le mini-serie bonelli solo che non sono MINI-serie. Sono serie normali i manga.
L'Immortale è finito.

Lo so che non è una cosa di cui scrivere a casa. Però. Ho iniziato a leggere L'Immortale nel 1997. Un sacco di tempo fa. C'era ancora la lira e io avevo appena finito il liceo. Capisci? Era l'anno in cui ho iniziato a fare il cameriere in un ristorante vicino a casa, l'anno della patente, l'anno dell'estate al mare in 7 in un appartamento, l'anno in cui ho litigato per la prima volta con mio cugino che eravamo migliori amici - no, non è vero, non era la prima volta, ma era la prima volta da grandi che poi non te ne dimentichi più. L'anno in cui abbiamo camminato a piedi da Rimini a Bellaria dalla notte all'alba come gli Expendables adolescenti. L'anno in cui ho deciso di iscrivermi a Lettere Moderne invece che a Medicina - pensa te che scemo. Ho iniziato a leggere L'Immortale nel 1997 - non avevo mai visto dei disegni così - e l'ho finito di leggere nel 2014. Diciassette anni. Diciassette anni a leggere un manga. Non ho mai letto una cosa così spietata e così leggera allo stesso tempo, sai? Ha sempre avuto una crudeltà perfetta, estetica, fisica. Non è mai entrato sotto le costole, non ha mai toccato il cuore segreto delle cose, ma chissenefrega. Era perfetto. Non usciva mai perché Hiroaki Samura, l'autore, impiegava un sacco a disegnarlo. O almeno credo che fosse questo il problema, non ho la pretesa di capire questo genere di cose. A volte passavano tre mesi, a volte di più tra un volumetto e l'altro. Eppure ogni volta che usciva io ero felice.
L'Immortale è finito.

Ironico per uno che non può morire, no? L'uccisore di cento uomini, Rin, Makie, Magatsu, Hyakurin e tutti gli altri. È finito perché alla fine Manji ha ucciso chi doveva uccidere e basta. E il finale è di una semplice tristezza perfetta, è quello che doveva essere. Un addio che devi dare ma non vuoi. Samura è diventato un dio del disegno, pagina dopo pagina. In un episodio ha disegnato un tizio che trancia una gamba a una donna e poi infila le dita dentro al moncherino, le taglia un seno e spinge una mano intera nel buco, fino in fondo, e tu urli con lei, non puoi fare a meno di sentirla quella mano. Ha disegnato la scena di orgasmo più incredibile che abbia mai visto in un fumetto. Con una bravura che mi ha lasciato stordito. Ve la metto qui. Devo mettervela qui.


L'Immortale è finito.

Quanto è bella questa cosa? Che ti mancano tutti? Come quando arrivi alla fine di Harry Potter e non puoi non sentirti senza un pezzo pensando a quanto ti mancheranno le bacchette e il mantello dell'invisibilità e Hogwarts e tutto il resto. Che cosa farà Hiroaki Samura non lo so e forse non mi importa. Spero solo che non racconti più niente de L'Immortale. Quello scemo - detto con affetto - di Yukito Kishiro doveva lasciare Alita lì dov'era. Invece no. Vabbè. L'Immortale è finito e io credo che sia una cosa bellissima che è finito. Capiscimi. Non sto dicendo che sia brutto che puoi leggere ogni mese storie nuove di Thor o di Tex. Ma è diverso. Io qui sto ammirando la FINE. È la cosa più tremenda e affascinante e importante delle storie. Che finiscono. Lo so che Dylan Dog e L'Uomo Ragno sono nati con lo scopo di non finire mai, ma sono completamente diversi. Anzi, io la trovo commovente questa cosa che non riusciamo a lasciarli andare e a stare senza. Però. Però è anche vero che appartiene al passato questo modo di fare le storie. O forse è che non ci riusciamo più a creare le icone. Facciamo le serie TV che finiscono, magari dopo sei anni, ma finiscono. Facciamo i fumetti come Y-L'Ultimo Uomo o come Saga e sappiamo che finiscono, Locke & Key finisce, Morning Glory finirà. E prima o poi anche Naruto dovrà finire, ma quello è un manga e i manga finiscono. Forse perché è così naturalmente liberatorio arrivare alla FINE, non so.

L'Immortale è finito. E basta. Rileggerlo non è la stessa cosa, non è come la prima volta quando non sai dove stai andando, che ti lasci portare per mano a correre già dalla discesa. Ma in fondo nessuna cosa lo è.

martedì 17 dicembre 2013

Un Dente Alla Volta

Vado dal dentista. Una di quelle cose da grandi che si devono fare per forza anche se non ne hai voglia. Da piccolo è diverso, da piccolo mica lo decidi tu che devi andarci dal dentista. Da piccolo ti obbligano. È tutto diverso quando arriva il momento in cui invece lo decidi. Tutto diverso.

Comunque. Vado dal dentista perché sono tipo due anni che non lo faccio e quando mi lavo i denti mi fanno male quelli in alto a destra. Non proprio male, sento un brivido. Ogni volta che mi siedo su quella poltrona, con l'assistente che mette l'acqua azzurra dentro il bicchiere e il dottore che arriva lì vicino con la sua casacca verde scuro e mi chiede come va, io mi metto l'anima in pace. Sarà una cosa lunga. Lunga e dolorosa. Che una volta, anni fa, il dentista mi ha fatto un'anestesia e ha iniziato a trapanarmi il dente, ma il mio metabolismo si è bevuto l'anestesia così in fretta che è finita a metà dell'operazione. Ho sentito il trapano entrare nei nervi di tutto il corpo, metallo e carne. Come lavarsi i denti con una motosega.

Il dentista mi dice che non è niente. Che in realtà è solo il tartaro, i denti sono a posto. Poi mi guarda e con aria stanca aggiunge che le gengive sono rovinate, che il tartaro è su tutti i denti anche se sfrego con tanta forza. Io gli chiedo come fa a sapere che sfrego con tanta forza e allora lui scuote la testa. Come nei film quando uno deve dare una risposta ovvia, così la scuote, come un dannato professore deluso dal suo studente più brillante, quello che un giorno poi. Scuote la testa come Marlon Brando a ripetere l'orrore l'orrore e dice che lo fanno tutti. Sfregano con tanta forza e non serve a niente. Stanno lì con i loro spazzolini, davanti allo specchio del bagno, a sfregare come se fossero ancora a scuola a cancellare con la gomma sul foglio protocollo. Ma non serve a niente. Non serve perché lo fanno nel modo sbagliato.

Ed è lì che ho pensato. Lo facciamo sempre. Lo facciamo con tutto. E lo facciamo sapendo che è sbagliato, fregandocene il cazzo che non funzioni. Sfreghiamo con tutte le forze i denti della nostra vita e non c'è modo, nessun modo di imparare a non farlo. Non c'è modo di convincerci che non abbiamo cambiato niente, che non abbiamo cancellato la parola scritta a penna sul foglio protocollo anche se l'abbiamo bucato a furia di sfregare. Che non abbiamo cancellato l'errore che continuiamo a commettere e che continua a fare male, che non abbiamo cancellato gli sbagli che ci ingoiano giorno dopo giorno, abituandoci, che non abbiamo cancellato le paure che ci bloccano fermi lì, a non fare nulla, che non abbiamo cancellato un accidenti di niente.

Eppure è così facile. Eppure ce l'hanno spiegato tante volte come si fa. Un dente alla volta.
Un dente alla volta.

sabato 16 novembre 2013

Stoker (ovvero le sceneggiature)

Un altro post prima di un anno? Sul serio?

Stoker è il film di Park Chan-Wook - quello della trilogia della vendetta, quello di Oldboy e di Simpathy for Lady Vengeance. Quello che a un certo punto fa un'inquadratura dei capelli di Nicole Kidman e i capelli poi diventano l'erba in un campo dove la piccola Stoker sta sdraiata con il papà pronta a sparare agli uccelli. E che mette la gente sulle scale come Hitchcock.

spoiler spoiler spoiler

Ora. A parte quella scena e le inquadrature che figata (ce ne sono alcune che aprono la mente, sul serio) e i titoli di testa che entrano nell'ombra della gonna che si solleva di lei e lo spruzzo di sangue sui fiori bianchi, il film è di una inutilità sconvolgente. Dal punto di vista della sceneggiatura, almeno. Non sto discutendo della bellezza estetica, della regia o del montaggio, né della fotografia o degli attori. Parlo della storia e di come la storia viene raccontata attraverso le parole. E parlo del senso. Difficile separare questo aspetto dal resto, lo so, ma visto che sceneggiare è il mio lavoro lo faccio. Non parlerò del film nel suo insieme, ma solo della sua scrittura. Il modo in cui la storia e la sceneggiatura veicolano il senso di Stoker non funziona. Fa a pugni con la regia quasi in ogni scena, catapultando lo spettatore fuori dallo schermo, a casa sua, con i problemi di tutti i giorni che con un film così, con qualsiasi film, non dovrebbero avere a che fare fino al buio alla fine.

In Stoker succede un mucchio di roba che puoi capire dal primo minuto. C'è uno zio strano e inquietante che sembra un serial killer, ehi è un serial killer. Mi sa che ha ucciso la governante e l'ha messa nel freezer, ehi c'è la governante morta nel freezer. Lo zio guarda la nipotina come se volesse scoparsela e lei si eccita, ehi dopo praticamente scopano mentre suonano un pianoforte. Mi sa che lo zio ha ucciso il padre, ehi lo zio ha ucciso il padre. Mi sa che la mamma farà una brutta fine, però dai la figlia non può davvero permetterlo, ehi la mamma sta per fare una brutta fine, ma la figlia la salva all'ultimo momento con un fucile - che le abbiamo visto usare solo nei flashback, giusto per dire che sa sparare (ciao Zemeckis delle Verità Nascoste e delle banalità esposte). Avete visto Dexter? Se sì urlerete di fronte al flashback. Che poi, lo sceneggiatore (che come attore mi sta pure simpatico, visto che è quello di Prison Break) fa intuire che lo zio Charlie e India siano una specie di "esseri assassini", "stoker" appunto, ma che non sono affatto vampiri. Volete sapere la verità? Se fossero stati vampiri, una specie di vampiri, sarebbe stato meglio. Molto meglio. Gli esseri che non hanno caratteristiche vere, concrete e definibili, non esistono per lo spettatore. Puoi anche non usare vampiri, zombie o golem, ma devi darmi qualcosa a cui attaccarmi. Qualcosa da riconoscere in loro. Dammi un minimo di mitologia, orco mondo, se no penso che non è così - penso che quelle non siano creature ma persone normali con istinti assassini.

Poi c'è questa cosa che sembra giustificare tutto: la tensione emotiva usata per coprire i comportamenti di personaggi che non sanno perché fanno le cose che fanno. Lo dicevano anche di Panic Room all'epoca, ma non era vero. Panic Room aveva tematizzato la regia, questo sì, rendendola parte dell'effetto globale, mezzo fondamentale e significante per trasmettere il senso del film. Ma lì la storia c'era, era solida - poteva piacere o non piacere, ma sta di fatto che era fatta bene e se ne stava al posto suo, sullo sfondo. Qui la storia crea problemi, non è zitta. Non è nemmeno una sceneggiatura emotiva, che conta sull'astrazione o sul linguaggio irrazionale e istintivo come fa Lynch. Qui la sceneggiatura è una brutta via di mezzo. E basta.

La questione è. Stoker è scritto male. Malissimo. Ed è ancora peggio perché sembra che non lo sia. Le immagini sono così belle, gli attori così bravi (almeno India e la madre) che sembra un film bellissimo, ti inganna, ti frega da quanto la superficie è splendida. Ma non ci sono punti di svolta, non ci sono momenti di vera sorpresa, la storia non va da nessuna parte, non fa domande e non dà risposte. Non ti inquieta e non ti sorprende. Non c'è ma dà fastidio. I personaggi agiscono senza sapere perché agiscono. Capiamoci, non sono IO spettatore che non lo so, questo potrebbe anche andare bene, il fatto è che sono LORO a non saperlo e la cosa, all'interno della storia, crea intoppi quasi in ogni scena. E allora vedi il regista spuntare dallo schermo con le palline rosse per distrarre tutti. Bravissimo, eh, ma è uno spreco di senso e di sforzo. Un peccato. Stoker non ti comunica nulla e non ti intrattiene nemmeno. Ha la profondità filosofica di Arma Letale e la velocità d'azione di uno Tsai Ming Liang (tipo il Fiume). Tutto sbagliato. Lavorando in un mondo vagamente collegato al cinema americano posso solo immaginare quante volte al povero sceneggiatore abbiano rivisto, corretto, rovinato lo script, obbligandolo a inserire scene senza senso. Gente incompetente che occupa posti che non merita. Succede, non sempre, ma capita. Va bene. Va bene tutto. Ma non possiamo accettarlo. So che suono un po' esagerato, ma io credo davvero che dovremmo tutti piantarla. Viviamo in un mondo che ha abbassato l'asticella, non prendiamoci in giro. Culturalmente siamo un passo indietro rispetto a ieri, e per ieri intendo proprio ieri. Possiamo per favore ricominciare a definire brutte le cose? Non è difficile. Non è tanto spaventoso. Con le persone ci viene facile. Vedi una ragazza o un ragazzo brutto e lo pensi e lo dici e magari ci scherzi pure sopra. Perché con altre cose ci risulta tanto faticoso? Basta pensare alla merda. Vi piace la merda? La mangereste una pizza alla merda? A meno di patologie particolari o che siate un cane, credo proprio di no. E nemmeno una pizza con il pomodoro andato a male o con la mozzarella acida. E allora perché non siamo più capaci di riconoscere una storia fatta male? Forse non lo siamo mai stati, non sui grandi numeri ok (se no il marinismo non sarebbe mai esistito) però almeno noi. Almeno noi che ci viviamo di queste cose, invece che i programmi di cucina con i cuochi pazzi possiamo auspicare, applaudire, fare un programma in cui qualcuno mena forte sulle storie scritte male? Ma tipo che poi magari, forse, i produttori/editori si accorgono che una storia bella è meglio di una brutta. Non sempre eh. Va benissimo Checco Zalone. Va benissimo perché se no le case produttrici non esisterebbero. Però se poi devi investire i soldi che fai con Zalone invece che su un mini-Zalone (o peggio) magari li investi su qualcosa di meglio. Su una storia bella e scritta bene.

Una volta McKee ha detto che in vita sua ha letto migliaia di sceneggiature con una brutta storia scritte bene, ma non ha mai letto una sceneggiatura con una bella storia scritta male. Secondo lui è impossibile. Chissà se ha ragione.

lunedì 11 novembre 2013

It's Time to Breakout (ovvero Lucca e i fumetti)

Sì lo so, Lucca è finita da più di una settimana, ma abbiate pazienza io sono vecchio e lento. 
(tra l'altro è tipo un anno che non scrivo su questo blog - ma mi mancava la neve e ho intenzione di fare arrivare una tormenta)
(poi meglio tardi che mai, no?)

Io a Lucca ci sono stato un giorno solo, schiacciato fra la folla e l'umidità, ma non ho assolutamente niente di cui lamentarmi. Anzi. Io quando vedo i cosplayer mi commuovo e sono felice e per me fa parte di un tutt'uno - quelli intellettuali che comprano solo fumetti pensierosi (io sono uno di quelli che comprano fumetti pensierosi quindi non mi rompete) e quelli vestiti da Principessa Disney che non comprano niente ma a loro modo rendono Lucca quello che è. Odiatemi pure, ma credo che senza di loro Lucca non sarebbe Lucca e tutti, compresi noi autori, ne avremmo da perdere.

Vabbè la faccio breve. A Lucca c'erano i fumetti. Un sacco di fumetti. Fumetti italiani. E per me che ci vivo - letteralmente - di fumetti è stato bellissimo vederlo. Cosa che a San Diego non succede perché a San Diego dei fumetti ci sono solo gli echi - e magari gli autori quelli sì. Insomma tanti fumetti nuovi, tantissimi. E non ho potuto comprare molto, ma quello che ho comprato ne è valso la pena. Come il Corpicino di Tuono Pettinato che non ho ancora letto, ma non vedo l'ora. 



Poi ci sono loro, i tipi di Dr. Ink. Hanno fatto un magazine a fumetti e illustrazioni che si chiama Badass ed è una specie di manuale per diventare tipi tosti e prendere a calci in culo il prossimo invece che farsi prendere a calci in culo dalla vita. La cosa, ovviamente, è provocatoria e non ho intenzione di discutere qui del suo senso né della promozione fatta - quella delle palestre Breakout che ad alcuni ha dato del fastidio a me invece ha divertito (ne parla l'amico Joe Salati qui). Insomma perché ne parlo? Perché io quando vedo qualcuno che ci prova, ci prova davvero, e fa cose belle allora devo parlarne. Dentro a questo Magazine ci sono i disegni che si animano con i fogli di acetato, ci sono le pagine che si aprono come quando eravamo piccoli e un poster con dietro gli sketches e le matite, c'è la tessera della palestra, ci sono i test e pure l'oroscopo, ci sono anche le interviste (a me quella del Pinguino è piaciuta un botto). Il design diventa contenuto qui, la forma si fa significato. Dico sul serio. Per questo credo che sia un lavoro bellissimo. 

E non vedo l'ora di scoprire che cosa si inventeranno l'anno prossimo. Dr. Ink per me è diventato un appuntamento fisso, immancabile. Hanno cominciato con il manuale per allevare un Robottone - geniale. Poi il manuale per diventare una Divinità e iniziare una religion e ora Badass. Sul serio, è come una serie TV con una puntata all'anno. Voglio la prossima stagione, voglio il prossimo episodio e vorrei saperlo prima, ma invece no. Voglio farmi sorprendere da loro. Succede così di rado in questo mondo che non puoi non essere estasiato quando accade.


Non sono sicuro di come fate a procurarvelo se non eravate a Lucca, ma forse lo potete chiedere direttamente a loro:


venerdì 2 novembre 2012

Una Pistola e Una Radio


Ho visto 007 - Skyfall.
E mi ha fatto un effetto strano e grande.










*Spoiler alert, parlerò di tutto il film, eh, colpi di scena compresi.*


Non sono un bondiano e nemmeno ho visto tutti i film né letto tutti i libri. Però quando ne davano uno in TV io me ne stavo tutto contento sulla sedia della cucina a guardarlo con mio padre. E questo mi basta. Ovviamente il mio preferito è e resterà sempre Sean Connery. Anche se questo di Daniel Craig ha qualcosa di incredibilmente attirante.

Ma vabbè, la cosa strana è un'altra. A parte il ritmo lentissimo - che a me Sam Mendes mi fa sempre un po' sonno - è un film bellissimo. Girato quasi tutto senza trucchi, trucchi di scena intendo. Che si prendono il tempo di allargare, girare, muovere la scena come gli pare e piace e tutto sembra vero. Tutto È vero. Come si faceva una volta.

Ci sono scene d'azione sì, ma le più spettacolari sono all'inizio e a metà e sono in un certo qual modo realissime. Pure le esplosioni. E le sparatorie e gli inseguimenti ed era già la cifra del primo film, lo so, ma qui c'è qualcosa di più. È un po' come si faceva una volta.

Cambiano alcune cose, tipo che c'è il ragazzino inglese genietto arrogante giovanissimo che però poi quando deve dare a Bond la sua attrezzatura gli dà Una Pistola e Una Radio. E basta. Come si faceva una volta, anzi meglio. Solo prendendo le cose migliori di quelle che si facevano una volta.

La sceneggiatura è solida e ben costruita, con tutto al punto giusto e ogni scena è introdotta, sviluppata, conclusa e ri-conclusa con il finalino. Ogni ambiente viene mostrato in esterno e poi in interno. Come si faceva una volta.

Poi a un certo punto, dopo che tutti stanno a dire a Bond e a M che sono vecchi (Bond cade a pezzi e c'ha pallottole dappertutto e non ce la fa più) e che il nuovo non lo puoi mica battere perché è così avanti che tu sei ancora alla prima curva e quello sta già festeggiando con la coppa e le zoccole, be' i vecchi prendono una decisione strana: fanno le cose alla vecchia maniera. E tirano fuori la Aston Martin di Goldfinger (cazzo sì, proprio quella con le mitragliatrici davanti e il pulsante di eiezione rosso che quando l'ho visto son saltato sulla poltrona urlando) e se ne vanno nella Scozia di Connery - che è proprio quella - per aspettare i cattivi. IL cattivo - che merita un discorso a parte ma non è il punto ora. Il punto è che Sam Mendes e gli sceneggiatori si riprendono tutto quando - la Aston Martin e anche la cazzo di musica di Goldfinger, proprio quella uguale uguale - e se ne vanno. Per una strada senza niente, come si faceva una volta.

Il cattivo spreca una tonnellata di proiettili e di tempo per far esplodere la Aston Martin e tu ti incazzi con Bond quando lo fa, ti salgono i nervi come se uno fosse entrato in casa tua e ti avesse spaccato la tazza del caffèlatte che c'hai da quando eri bambino.

C'è qualcosa di immensamente bello e di immensamente amaro in questo film. C'è una riflessione sul nostro mondo - un mondo avanzatissimo che non ha bisogno di niente - e sul vecchio mondo - che le cose le facevano meglio e che alla fine il cuore ce l'avevano. È una riflessione enorme per un film di James Bond e fa venire i brividi a tratti: come se non ci fosse strada. Come se l'unica possibilità sia di fare inversione a U e tornare indietro perché hai sbagliato tutto bello - il navigatore di stocazzo ti ha portato così lontano che ora non sai più dove sei e l'unica dannata via è quella che hai abbandonato. Torna indietro, scegli la strada migliore e vai da quella parte.

Intendiamoci, io non credo che sia così. Ma mi spezza il cuore vedere che è così. A lavorare agli adattamenti dei film Pixar si capiscono un sacco di cose. Ho letto tutte le versioni degli script degli ultimi film - da Wall•E in poi. E ci vedo lo stesso schema. Wall•E e Up a parte. E la stessa, tremenda conclusione: che non puoi davvero rifare Goldfinger perché non ti verrà mai.

A questo punto sei come i topi di cui parla Bardem - il cattivo del film. In pratica la storia è questa: tu catturi tutti i topi che ti infestano l'isola e li chiudi in un barile. Poi mica li affoghi, no. Li lasci lì. E quelli prendono a mangiarsi l'un l'altro e alla fine ne rimangono solo due. Tu quei due li liberi e loro non mangiano più la tua frutta e verdura, quelli si mangiano i topi. Siamo diventati cannibali, le storie che facciamo sono tutte cannibali. Ed è l'unico modo di raccontare - sì, ci sono le eccezioni lo so, ma le eccezioni sono, appunto, eccezioni.

Ci stiamo cannibalizzando. Non è mica la prima volta nella Storia. È successo un sacco di volte. Voglio dire quanti quadri della Madonna con Bambino ci sono in giro? Il punto è che non siamo più abituati, il punto è che ci si aspetta sempre che qualcosa di nuovo venga fuori, ci hanno insegnato che se inventi qualcosa di nuovo sei un fico della madonna, ma sono tutte stronzate. Sono miti di carta velina, che a un soffio di vento vengono giù. Come il sistema di Q che viene craccato dal cattivo in dieci secondi netti e lui fa la figura del pirla. Poi certo, arriverà qualcosa di nuovo, arriva sempre, e romperà tutti gli schemi e ci racconterà cose che nemmeno immaginiamo. Ma non adesso. Adesso bisogna fare come si faceva una volta.

È un film amaro 007 Skyfall, ma è un film molto, molto bello. Perché ti spinge dentro alle cose di tutti i giorni usando le sparatorie e i dialoghi senza fronzoli. Come si faceva una volta.

E un'altra cosa. L'ho visto in Sala 1 dell'Odeon, con un pubblico di ragazzini sui vent'anni. E quando è arrivata l'Aston Martin sono esplosi gli applausi ed è una cosa che mi ha lasciato senza parole. Come il fatto che nelle scene lente e silenziose c'erano gli scemi che alzavano la voce e si shhushiavano per gioco. C'è tutto il mondo in questa cosa, i ragazzini che fanno casino e ti disturbano la tua visione calma e tranquilla e poi applaudono quando tu applaudi. Tutto il nostro mondo.

Poi però una cosa. Se ci cannibalizziamo facciamolo bene. Solo questo. Ci resta solo questo, di farlo bene. È tipo l'unico Vangelo che abbiamo e disattenderlo significa sputare in faccia a noi stessi. Quindi niente penne esplosive, per favore. Lo dice anche Q. Solo Una Pistola e Una Radio.

mercoledì 22 febbraio 2012

Mama's porch

È come quando hai corso tutta la corsa che potevi correre. 
Che respiri amaro e ti viene da sputare tutto, anche se poi, in fondo, non hai altro che aria liquida da buttar fuori.
Mi sento così e non so proprio che farci. Sarà che tutto il lavoro, il carico immenso di lavoro che mi sono preso sulla testa per non pensare, alla fine è finito. O quasi. Sarà che non sono riuscito che a incappare in progetti affogati o naufragati. Sarà questo o che non viaggio da, davvero, troppo, troppo tempo.
O che mi guardo allo specchio e fatico a capire chi c'è rimasto dietro.
Nei giorni così penso solo al mama's porch, quello che per me non era il porch ma quasi. Era un giardino con la staccionata e sembra così lontano ora che è diventato, sta diventando, un libro. A volte mi chiedo se lo sto scrivendo per non perdere i miei ricordi o per riviverli, il risultato è che mentre li scrivo è tutto perfetto è dove voglio essere, è chi voglio essere. Ma dopo, quando mi fermo, quando finisco un pezzo e probabilmente quando finirò tutto sarà solo un libro e avrò, comunque, perso tutto.

Perché si perde sempre tutto alla fine? Non si potrebbe avere una sacca che quando la apri le cose sono di nuovo lì come erano? Le persone mi durano solo giorni, poi le perdo come i portachiavi, così li perdo, che dovrebbero badare alle tue chiavi – diamine li compri per quello, si chiamano porta-chiavi – e invece li perdi sempre prima delle chiavi. Si consumano e cadono da qualche parte, scompaiono o magari li prende qualcuno. Così succede con le persone.
Perché non puoi avere cuore abbastanza per tutto, mi dico, perché non ti basta mai il fiato? Non è giusto.

martedì 17 gennaio 2012

C'era una vola il Virgin Megastore


Una cosa che ho scritto tantissimi anni fa. Nel 2005. È una storia breve. La posto senza nemmeno metterla a posto dove vorrei. Vale come un calcio in culo molto personale a me stesso.



Scendo di sotto dalle scale all'entrata, proprio da piazza Duomo. Chissà come sarà vederla per davvero, un suo concerto; suonerà tutte le canzoni che amo. Cerco la biglietteria, deve essere dove ricordo, in fondo al reparto musica internazionale. Vedo una ragazza carina, ma sta con un ragazzo; vorrei abbracciarla e intrufolarmi nella sua maglietta come se fosse la sua vita. Mi avvicino al banco dove la commessa è grassa e con gli occhi azzurri e profondi. Mi dice qualcosa, ma non capisco per via della musica che si sente nella stanza. Faccio il gesto di scrivere; chiedo sempre carta e penna. Me li porge. Scrivo piano a caratteri grandi, in stampatello, perché possa capire, quelle lettere che mi danno un po' di emozione a pensare che la vedrò davvero; ci tengo così tanto. T poi O poi R poi I, poi AMOS. Sento che mentre scrivo qualcuno mi osserva e non so se la vergogna è forte o debole. Ho perso l'abitudine.

martedì 10 gennaio 2012

2012 cose


Scrivendo una sceneggiatura dopo l'altra.
Una nuova puntata di una serie live action per Luxvide. E la graphic novel di Frankenweenie. Sì, quello nuovo di Tim Burton. Di cui non posso dire nulla, ma presto magari sì.

Scrivendo altro – un libro, un gioco di card, un progetto grande di card e libri insieme – insomma, ho pensato a una cosa.
Sarà forse per Collateral o per Drive, che sono un po' la stessa cosa. O forse per Game of Thrones.

Ho pensato a un personaggio. A uno che si tira le sberle in testa per svegliarsi, perché crede sempre di essere addormentato. Che si spacca il palmo della mano sul cranio, che si schiaffeggia. E tira i muscoli del collo e delle mani. Uno che sa bene che il tempo guarisce tutto. Lo ripete a tutti. Il tempo cancella tutto. Lo dice anche a me, io dico sei sicuro e lui giù a ripetere fidati. Se gli dai abbastanza tempo, al cuore, cancella anche tua madre. O tuo padre o il tuo cane o l'amore della tua vita - ammesso che esista una cosa come l'amore di una vita intera, dall'inizio alla fine - almeno lo cancella nel senso che non ci pensi ogni minuto, ogni ora, ogni fottuto secondo che la tua testa non è occupata per forza in qualcosa come il lavoro, le bollette, il calcolo della parabola di una palla in una partita. Quindi sì, dopo si sta meglio. Così mi dice, mi convince. Quello che pensavi che era eterno e importantissimo per te, come la pelle che ti tiene insieme, poi scopri che non lo era. Non dire che è impossibile, mi ripete. E capisco che per lui, lui che si prende a colpi per svegliarsi, sono scemo a credere che non sia così. Un completo idiota. Perché è così e basta. Cambi città, cambi lavoro, cambi panettiere e bam, d'improvviso non ci pensi più a quella cosa. Parola d'onore, il tempo guarisce ogni cosa.

Il problema, però, non è il tempo che passa e ti aiuta. Mi fermo. Mi guarda. Il problema non è non pensare alle cose, al passato, a quello che non è più qui. Il problema è che quello che è stato c'è ancora. Lì, in quel momento. Alle cose non ci pensi più, ma non serve a niente. Se hai tradito tua moglie, poi puoi anche non pensarci ma lo hai fatto, in quel preciso momento è ancora lì come un marchio e tu sei lì che le vieni dentro guardando la giacca che si stropiccia sulla poltrona, magari pensando che non lo farai più anche se la settimana dopo scoprirai di averti mentito. Forse per te non è un problema, mica sto dicendo di no, ciò non toglie che lo hai fatto. Se da piccolo ti picchiavano a scuola, ti cacciavano la testa nella turca del bagno delle ragazze, ti menavano dietro l'angolo del campetto scatarrandoti in gola e costringendoti a ingoiare, in tre che puzzavano di fumo e te lo soffiavano negli occhi per farti piangere, beh, quella cosa è presente. È lì, ferma, indelebile come un cazzo di universo. Forse per te è acqua passata, ma non vuol dire che non te l'abbiano fatto. Sono cose indelebili, più indelebili del sole stesso. Puoi dimenticarle, ma non puoi evitare che esistano. Così mi dice.
Ma mi dice anche un'altra cosa. Questo significa anche che le persone che hai perduto, quelle importanti, quelle che hai amato, continuano ad amarti. Il tuo cane è ancora accanto a te, che scappa correndo in un prato. E lei è ancora sulla rubrica del telefono di casa tua, perché è ancora viva. È una cosa confortante, no?

Non lo so. Per me non funziona così, credo. A me viene più facile veder lì le cose brutte. Sono quelle che fatico davvero a dimenticare, anche se non ci penso spesso. Le cose belle invece sbiadiscono sempre troppo facilmente. Come i quaderni scritti con la stilografica della pelikan. A sfogliarli adesso sembrano fantasmi di parole, che stanno scomparendo come la foto di Ritorno al Futuro.
Anzi, ora che ci penso, di solito faccio un'altra cosa io. Trasformo le cose brutte in cose belle. Visto che sono così indelebili, così grandi, facci finta che le cose brutte siano cose belle. Le cambio, le travesto, mi invento che sono bellissime e che mi hanno fatto felice quando in quel momento, in quel preciso momento non è stato affatto così. È il mio modo di fregare tutti.


(Buon Anno)
(No, non sparirò di nuovo per altri tre mesi)
(Magari solo due)

giovedì 22 settembre 2011

Oh My Heart (di Super 8, R.E.M. e pesche)


Lo so, non posto da mesi.
No, non è che voglio chiudere il blog. Non è neanche che non ne ho voglia. È che mi sono lasciato trascinare apposta nel gorgo del lavoro. Lavoro. Scrivo per lavoro, che doveva essere solo la mia religione. Spero di non fare la fine di Soren K, JD.

Volevo solo dire tre cose.

Che non mi arrendo. Che non avremo FINE, ma avremo altro. Promesso. Ci sto lavorando. È che sono dannatamente lento. Me lo ha detto ieri anche il mio amico Max. Sono lento, costante e inarrestabile, ma lento.

Che questa cosa di Scream 4 ancora non ho capito come farla ma non mi schiodo dalla mia posizione. Le cose che vogliamo sono quelle sbagliate. E lo confermo dopo aver visto quella schifezza di SUPER 8.
Che non solo è fatto male - ci sono robe telefonate che nemmeno nelle Verità Nascoste. Se ascolti i primi 20 minuti di dialogo capisci tutte le svolte della trama. E non è solo questo. I personaggi sono finti da morire. Dovevano fare un gruppo di ragazzini simpatici e hanno fatto un gruppo di ragazzini simpatici. Ma non sono veri. A parte forse per il regista, quello che "non è ancora magro", quello che sembra JJ e Steven insieme. Quello mi è piaciuto. Ma gli altri, gli altri no. Cioè, sono uscito dal cinema e non riuscivo a ricordarmi il nome di nemmeno uno di loro. Com'è possibile? Sono gusci vuoti, come la storia, sono il fantasma di una cosa che ti sembra di ricordare. Come cercare di riprodurre la Coca Cola senza ricetta.
Per non parlare della trama, che fa acqua da tutte le parti, del montaggio che perde pezzi (come cazzo fanno a uscire dal labirinto sotterraneo, per cominciare?) e di una regia che non ha nulla da dire. Cinque minuti di vagoni ferroviari che esplodono sono la summa del film. Come a dire: è tutto qui, scusateci.
Non è che voglio fare il nostalgico a tutti i costi, e dire che i Goonies erano un'altra cosa. Che Navigator era un'altra cosa, e Stand by Me e persino Explorers. Non è questo il punto. Il punto è che non puoi raccontare la stessa cosa, non puoi fare finta che non sia successo niente nel mentre. Non fatemelo dire, cazzo. Mi sembra di essere Cervantes (magari). Che il romanzo cavalleresco è finito. Morto. E noi siamo dei poveri scemi che vanno a caccia di mulini a vento.

La terza cosa. Che è agghiacciante crescere. Mi spiego. È agghiacciante crescere e scoprire che le cose che temevi sono esattamente come le temevi. Sono gocce, me ne rendo conto, che le cose gravi nella vita sono altro. Però basta. I raccomandati, i ricchi annoiati, i piccoli meschini lavoratori del mio settore - la gente che scrive - sono sempre più tristi. Sono un cuore sempre più debole, polmoni sempre più fiacchi. E così, di recente, lavoro a serie TV che copiano le serie TV americane - nel senso di ricalcare i personaggi proprio. Gente, mi pagano per saccheggiare le serie TV americane. Boris, anyone?
E ci sono i cartoni animati fatti a cazzo di cane e i fumetti sceneggiati nello stesso identico modo di quando non c'era stato il millennium bug, di quando c'erano le torri gemelle, gli americani erano i buoni e Berlusconi era quello che aveva le televisioni e ci stava simpatico perché faceva il Drive in e i comunisti erano solo quella cosa da grandi del collettivo di sinistra che al liceo ci stavano tutte le meglio fighe.
Intendiamoci, non è che io non sia parte del problema e che non ci siano le eccezioni. Nei cartoni animati e nei fumetti e nei libri. Ci sono, ma sono eccezioni. Ecco. Forse è questo che rimpiango, che una volta, quando non ero ancora cresciuto (come il ragazzino di Super 8 non è ancora magro), avevo le illusioni non le eccezioni. E mi piaceva di più.

Basta, la pianto di lamentarmi che se no nemmeno i miei 25 lettori mi conservo. Però scusate, non vi dà fastidio abituarvi alle cose? Non vi si rivolta la calotta cranica a pensare al ragazzino o ragazzina che eravate? A me sì.

Detto questo, c'è che i Pearl Jam compiono 20 anni.
C'è che i R.E.M. si sono sciolti e con questo sono più seri di gente come gli U2 o i Rolling Stones. Perché le cose finiscono, prima o poi. Tutte.
E c'è che questa canzone che hanno fatto è totalmente loro, così vecchio stile da suonare quasi noiosa e falsa. Ma poi non lo è perché pensi che è l'ultima. Come l'ultimo sorso di birra prima di andare a casa, quello che fai fatica ma non vuoi lasciarlo lì. Come l'ultima pagina di un libro che ti è piaciuto, come il primo passo fuori dal letto la mattina, come l'ultimo movimento dentro di lei, dopo che l'amore è già finito, come i titoli di coda della Pixar quando ci mettevano le cose da ridere. Come la pesca che hai lasciato in frigo, ti eri ripromesso di mangiarla e quella ha deciso di marcire. Che stronza.


The kids have a new take
A new take on faith
Pick up the pieces
Get carried away
I came home to city half erased
I came home to face what we faced
This place needs me here to start
This place is the beat of my heart

Oh my heart

Storm didn’t kill me
The government changed
Hear the answer call
Hear the song rearranged
Hear the tress, the ghosts and the buildings sing
With the wisdom to reconcile this thing
It’s sweet and it’s sad and it’s true
How it doesn’t look bitter on you

venerdì 22 aprile 2011

Evolution, baby


Ho visto Scream 4.
Considerato che Scream 2 è stato uno dei miei film preferiti di tutti i tempi, sono di parte. Ma anche chissenefrega.
Scream 4 non è un capolavoro di film. È un film medio. Medio decente.
Eppure ha qualcosa di importantissimo che spedirei un sacco di gente a calci nel culo a vederlo.

*Spoiler alert, parlerò del finale, eh.*



Alla fine è stata la cugina. Era lei ghostface stavolta. Ma non è questo il punto. E nemmeno l'idea geniale (per me) di rifare il primo film senza dirtelo, con le stesse identiche scene. No, per me la cosa geniale, rubata a Californication (episodio 11 della serie 1) va detto, è il perché la cugina lo ha fatto.
Lo ha fatto perché voleva la fama di Sydney/Neve Campbell: che cazzo, pensi che io voglia studiare, faticare e lavorare? dice. Voglio la fama, voglio essere al centro dell'attenzione, voglio i soldi, voglio quello che hai tu e lo voglio ADESSO. E quasi ci riesce, pure. Quasi.
Come quasi ci riesce Mia in Californication, che ruba il libro di Hank e dice le stesse parole. Non voglio lavorare, voglio quello che hai tu. Ma non durerà, la avverte Hank.

Mia: I never intended to be famous, but I do like being the center of attention. It feels just like I thought it would. Totally fucking great.
Hank: But it's gonna go away.

Ecco. Sta tutto in quel VOGLIO QUELLO CHE HAI TU. È lì l'errore, me ne sto convincendo. L'errore bellissimo e commuovente di un'intera generazione. La mia. L'errore supremo che ci fa cadere come solo noi sappiamo. Il problema non è che non possiamo raggiungere quello che vogliamo. Il problema è che vogliamo le cose sbagliate.

Perché abbiamo visto solo quelle cose e non sappiamo cosa possiamo volere di diverso. Perché il mondo del passato (delle case editrici, dei magazines, dei libri e dei cd, delle riunioni con dieci persone del marketing che non capiscono un accidenti di niente), quel mondo sta crollando e non sappiamo cosa c'è dall'altra parte del muro. Perché ci hanno insegnato, perché ci mostrano costantemente che questo è quello che è giusto volere. La fama. La fama che hanno tutti gli altri tranne noi.
Ma quegli altri sono vecchi e vengono da un mondo che non è il nostro. Non più. E non ci riesci, ci puoi provare a diventare Syndey Prescott, ma non ci riesci, alla fine. Alla fine fallisci. E basta. Perché era una cazzata provarci sin dall'inizio.

E allora? Allora forse è venuto il momento di volere cose diverse. Per non fare la fine di Jill in Scream 4, per non fare la fine di Mia in Californication, ma nemmeno la fine di Justin Bieber o chi per lui. Basta. Cambiamo le regole del gioco. Cambiamo quello che vogliamo. E non saremo un remake, non saremo un sequel o un prequel, non saremo nemmeno un reboot. Saremo una cosa nuova. Che gli facciamo prendere la strizza alle palle a queste cariatidi che ci circondano.

lunedì 11 aprile 2011

Senza Palle I


Due cose, che sembrano non c'entrare ma c'entrano.
Questa è la prima, anche se l'ho scritta dopo. Qui sotto trovate la seconda.

Cartoons on the bay.
Ci sono andato sabato. Andata e ritorno. Non ho visto molta roba, ma tanto non è di questo che volevo parlare. C'è una terrazza bellissima all'Hotel Excelsior che dà sul mare e ti ci puoi sedere a prendere il sole. Un caffè costa 4 cazzo di euro, ma la cosa buona è che non devi prenderlo se non vuoi. Fosse sempre così la vita, sarebbe bello no?

Ho fatto un pranzo con Warren Spector. È stato bellissimo. Non perché Warren Spector è Warren Spector. Cioè, anche. Ha visto e fatto la storia del videogioco. E ha raccontato di quando giocava a Dungeons & Dragons con Bruce Sterling come Dungeon Master. E questo già bastava perché anche io come lui conservo le mie prime schede di D&D e dio solo sa quanto darei per tornare indietro. Forse è questo che facciamo. Cercare di tornare a quel momento in cui diventare un personaggio era diventarlo davvero.
Ma non è stato solo questo. Warren è intelligente e si applica. Nel senso che non è seduto, vuole di più. Warren ha una visione ed è disposto a perdere tutto per quella visione. E quando ci parli, se ci parli come ci ho parlato io, non puoi non sentire questa cosa anche un po' tua.

Poi.
Poi vai alla premiazione di Cartoons on the bay. E ci sono politici e dirigenti RAI lì. C'è Garimberti e c'è Marano. In prima fila con le guardie del corpo. E a un certo punto Garimberti sale e presenta un altro dirigente RAI. Uno che non mi ricordo il nome. Dice che è giovane, mica come dicono sempre della RAI che i dirigenti non sono giovani. Io non sono bravo a giudicare dall'aspetto, ma a detta dei miei vicini di sedia ne ha almeno 50 di primavere alle spalle il giovane. Ma non è questo. Il dirigente giovane dice una cosa in inglese. Tre parole in croce, pronunciate bene per carità di dio, però non era Shakespeare. Sta di fatto che il presidente della RAI dice, senza un filo di ironia, senza neanche la possibilità che fosse ironico il tono, dice una cosa tipo: visto? poi dicono che alla RAI siamo vecchi. I nostri dirigenti sono giovani e sanno persino l'inglese.

Ecco. La chiudo qui. Non credo che ci sia altro da dire. Noi lottiamo su un ring dove anche le corde sono truccate. Giochiamo a un gioco vecchio per spettatori vecchi.
Prima di tutto spegnete la TV. Per sempre. Io l'ho già fatto. Poi cominciamo a ideare un nuovo modo di parlarci. Un modo che ci faccia mangiare a noi che creiamo, che ci dia i soldi per farlo. Perché è un lavoro, non dimentichiamolo mai. Che sia anche un modo per dare a voi storie che non siano passate sotto le unghie di dinosauri del genere. Ci sono tanti modi ora, non so quale sia quello giusto. Ma ho la sensazione che non sia nessuno di quelli ora disponibili. Secondo me dobbiamo uccidere Batman prima che noi Robin possiamo davvero avere una chance. Con l'autoproduzione, la produzione di nicchia, l'ebook o qualsiasi altra cosa. O un giorno, inevitabilmente, ci ritroveremo anche noi su quel palco. E francamente non lo augurerei al mio peggior nemico.

Senza Palle II


Due cose, che sembrano non c'entrare niente.
Ma c'entrano eccome. Questa è la seconda, anche se l'ho scritta per prima. Tra poco qui sopra trovate la prima.

Boris, il film.
Partiamo con questo. Io sono un fan della serie TV. Anzi io adoro la serie TV. La venero. So le battute a memoria, so le scene a memoria, quasi tutte le scene voglio dire. Rido e sto male quando penso al monologo sulla locura.
Il film di Boris mi ha fatto schifo. Aspettate, non credo sia una mera questione di gusti. Perché ho avuto i conati di vomito alla fine e non erano, non potevano essere giustificati solo dal gusto. Boris, il film, non è neanche una brutta puntata della serie TV. Non è niente.
Anzi è peggio. Perché non è solo scritto male e girato male - il che già basterebbe. E non è solo il fatto che i personaggi agiscono a cazzo di cane, senza motivazione. Che lo stagista e Arianna si baciano senza alcun motivo nel finale, senza che ci sia progressione, come se niente fosse. Sia per chi non sa nulla sia per chi sa tutto, questo è un insulto. E non è solo quello che dice. A parte due battute felici, non fa ridere. E non è vero che Boris non deve far ridere. Boris DEVE far ridere come Fantozzi faceva ridere. Di un riso che poi a casa stai male da quanto ti ci vedi dentro. Che se non fa ridere non rifletti.

Ma non è neanche solo questo il problema.
Potrebbe essere il fatto che se non hai visto TUTTE le puntate di TUTTE e 3 le serie non capisci niente e ti perdi ogni riferimento. Allora che senso ha un film così?

Ma, di nuovo, non è questo. La cosa peggiore è che prendono per il culo il cinema senza saperlo fare. Finché affondi le mani nella melma TV perché vieni da quel mondo io lo sento che mi stai dicendo la verità. E rifletto. Rido e rifletto. Ma quanta supponenza e falsa ideologia c'è nel prendere in giro i direttori della fotografia che hanno bisogno di una luce perfetta per girare quando tu non sai fare neanche un campo lungo come dio comanda? Quanto è italiano (sì, come dice Stanis) ironizzare su quelli che si sono fatti il culo per imparare un mestiere quando tu non hai mai nemmeno provato a farlo? Fare Tv e fare cinema sono come fare il pilota di formula 1 e di motoGP. Non è impossibile passare da uno all'altro, è comunque velocità, ma diavolo se è difficile riuscirci.

Ma la cosa peggiore forse non è neanche questa. Forse il problema è che Boris, il film, prova malamente a ripetere il senso dell'ultima puntata della terza serie. Quando René decide che si è rotto le palle di provare a fare Medical Dimension, che è tutto inutile. È meglio la merda, perché solo questo si può fare in Italia. La merda. Ma nel film non è la stessa cosa. Nel film René rinuncia a fare qualcosa di bello non perché è impossibile in Italia - da qui la critica e la follia ironica della locura. No, René rinuncia perché boh, perché costa un sacco di fatica, perché è un casino e ci vuole pazienza e sei partito già male e quelli che fanno cinema c'hanno la puzza sotto il naso. Un po' poco, no?

Ma, ora la pianto, anche questa non è la cosa peggiore. La cosa peggiore per me è un'altra. Che ha a che fare con l'essere onesti con se stessi e con quello che stai facendo. Ha a che fare con l'avere le palle.
Il cinema italiano, così come molte altre cose, sta andando male. Non c'è spazio, non ci si riesce a farsi vedere in nessun modo. A meno che non lo succhi a qualche ministro o sei figlio, parente stretto di un qualche nome del cinema del passato. O sei ricco - essere ricchi è sempre un'opzione valida. Ma proprio perché è così, una volta che ci riesci ad avere un'occasione tu fai una schifezza del genere? Ma allora c'hanno ragione a dare i soldi ai cinepanettoni. C'hanno ragione sì.
Ecco, questa è la cosa peggiore. Questo aver sprecato tutto, con un colpo di coda misero e riuscito male. Con un film che è fatto male e per questo non arriva a nessuno. E che in realtà non ci prova mai, nemmeno per un secondo ad arrivare. Scusate se sono così furioso, non è che mi aspettavo di più da Boris, il film. È che mi aspettavo di più da un film che non è un cinepanettone. Tutto qui.

Poi vabbé, a un sacco di gente è piaciuto e io resto allibito ogni volta che ne leggo o sento parlare bene. Ma davvero vi è piaciuto? Ma com'è possibile? Ma secondo voi il problema dei cinepanettoni è che fanno le scoregge? Secondo voi è davvero solo per quello che la gente ride? Forse sono io che sto diventando intollerante. Ma, fidatevi, è davvero da un'altra parte il problema.